Nessun lavoro, nessuna professione è facile da svolgere, ma certe ancor di più di altre anche perché ci si trova a contatto diretto con le persone. Operatori Sanitari, Infermieri, Dottori, nel difficoltoso e molteplice rapporto con gli altri hanno in più una responsabilità non da poco. Perché sbagliare di assemblare un oggetto è una cosa, sbagliare una diagnosi oppure commettere un errore durante lo svolgimento di un’esame o di una operazione, è ben altro. L’altro giorno ho letto una commovente lettera scritta da una infermiera e resa pubblica volutamente dalla stessa. Trovatasi improvvisamente per la prima volta dall’altra parte, cioè divenuta pure lei paziente, durante questa sua esperienza ha riflettuto su tutta una serie precedente di comportamenti suoi e dei propri colleghi. Perché commovente? Perché chiedeva scusa a tutti i suoi pazienti per la poca gentilezza, la fretta, e le parole non dette con il dovuto tatto. Particolari, se così si possono definire, molto importanti quando sei malato ed hai bisogno degli altri, quando una semplice mano sulla spalla può alleggerire in qualche modo anche una notizia poco lieta. Ammiro questa Signora e tutte le persone che ammettono e non solo con se stesse di aver sbagliato. Anche essere pazienti non è facile, in primis perché si è ammalati e poi perché si dipende dagli altri, spesso anche per essere svestiti , lavati e rivestiti. Mi viene spontaneo dire a coloro che svolgendo tale professione credono sia normale mostrarsi nella totale nudità, sottostare a trattamenti corporali  invasivi che di conseguenza diventano anche mentali, perché non vi fermate ogni tanto a pensare cosa provereste se dalla parte opposta vi trovaste voi? Nella lettera aperta di questa infermiera divenuta paziente, troviamo una persona che si trova a subire l’indelicatezza verbale e comportamentale che lei stessa infliggeva. Definisce il periodo della sua malattia come una folgorazione ed augura a tutti i colleghi di viverne uno simile. Ma tra i tanti che svolgono il suo lavoro o affini, che credono di trovarsi in fabbrica, nella cosiddetta catena di montaggio e non in un’ospedale, quanti di loro saranno benedetti da una uguale illuminazione? E perché poi arrivare a questo o dover aspettare succeda? Di mio posso dirvi che innumerevoli volte, guardando la mia Mamma sul suo letto di dolore, sentendomi impotente nel non poterle evitare la sofferenza che traspariva dai suoi movimenti ed espressioni del viso, mi sono per forza chiesta: “ Ma se al suo posto ci fosse la loro Mamma?” La risposta è implicita, avrebbero tentato di tutto e di più per renderle sereni gli ultimi giorni della sua vita, ed in questo non ci sono dubbi. Se ne sarebbero strafregati del fatto che la Terapia del Dolore non è protocollo medico! Questo dolore che mi porto dentro nessuno potrà mai togliermelo, e chi ha vissuto e subito ingiustizie del genere può capirmi. Quel tocco di umanità, di gentilezza e delicatezza che per una persona malata ha valore come le cure farmacologiche, dovrebbe esserci sempre, ma così non è. Mi riferisco al rispetto della dignità umana a cui tutti abbiamo diritto, ma che ci viene in molti casi negato.