“ La strada è ancora lunga. La riduzione della sofferenza certamente migliorerebbe la qualità di vita e verosimilmente aiuterebbe ad affrontare con migliore efficienza la malattia, al di là della sua fase e della presenza o meno di terapie farmacologiche mirate. “

Direi che questa frase è ancor oggi assolutamente valida e rispecchia, purtroppo, la realtà! Il primo movimento verso la ricerca della riduzione della sofferenza in tutti i luoghi di cura , quindi anche negli ospedali , fu’ la “ Normativa sull’Ospedale senza Dolore”. Normativa voluta fortemente dal Professore Umberto Veronesi, quando era Ministro della Salute, nel 2001. Questo documento innanzitutto si riferisce all’assistenza specifica rivolta al controllo del dolore di qualsiasi origine. A quel tempo si era riscontrato che il dolore continuava ad essere una dimensione alla quale non veniva riservata adeguata attenzione. Nonostante fosse stato scientificamente dimostrato quanto la sua presenza sia invalidante dal punto di vista fisico, sociale ed emozionale, si era portati a considerarlo un aspetto marginale. Ed oggi che possiamo dire? Che la situazione non è cambiata di molto se  osserviamo le nostre realtà ospedaliere. Che il dolore come valore di riferimento è ancora molto sottovalutato invece che equiparato come dovrebbe essere agli altri segni vitali di un paziente, come per esempio la frequenza cardiaca. Che le leggi esistenti non vengono applicate in moltissimi casi e naturalmente in primis non ne viene comunicata l’esistenza da chi di dovere. Che tanti Dottori svolgono la loro professione solo per raggiungere obbiettivi di prestigio, accantonando completamente il lato umano che invece dovrebbe caratterizzare sempre il loro operato. Che si pubblicizzano certi ospedali come “ Ospedali del non Dolore” ma che in realtà non è così . Affermare può essere facile, ma se nessuno controlla che alle affermazioni seguano i fatti, restano solamente parole al vento. Ugualmente di valore aleatorio le parole che molti, ingiustamente colpiti  in prima persona o negli affetti più cari pronunciano, in quei delicati momenti, per sfogare la loro rabbia, la loro impotenza, ma che poi tralasciano non rendendole pubbliche. Così dopo quasi vent’anni poco è cambiato, e la responsabilità di ciò è anche nostra.